E se fosse la fissa della felicità a renderci infelici?

“Delle volte uno si aspettava chissà cosa, invece succedeva chissà niente.” – P. Nori

Mattina presto. Mi faccio bella. Una cosa a cui avrebbe dovuto lavorare il comparto genitoriale una ventina d’anni fa elaborando un genoma un po’ migliore, ma è andata così, mi terrò questo. Il riflesso nello specchio ha un’aria morticcia, fortuna che non sono io. Ah, ops.

Lo guardo, gli chiedo: Chi sei? Come stai? Sei soddisfatta della tua vita? Mi risponde: Ogni interrogativo esistenziale è un minuto di ritardo. Preferisci prendere il treno o buttartici sotto? 

Come dargli torto, del resto. Ogni giorno lo esaspero tirandolo da tutte le parti per plasmarlo come vorrei. Uno quand’è giovane dovrebbe essere sveglio, attivo, spensierato ma anche responsabile, studioso ma anche sociale, un po’ storto come un adolescente e al contempo monolitico come un adulto. Dovrebbe essere felice, no?

Cadenze popolari

Un tempo possedevo un’agenda in cui coloravo in giallo le caselle dei giorni felici. Il giallo rientrava in realtà in una legenda più complessa; ricordo che gli esami erano ad esempio segnati in rosso. Vedere come stessi in un determinato periodo era un colpo d’occhio: con buona approssimazione a molto rosso seguiva finalmente un’abbondanza di giallo, di cui l’inverno era invece un po’ povero.

Talvolta i conti non quadravano, allora rivalutavo a ritroso i giorni, d’altronde non erano stati così male, no? Perché non ingiallire un po’ quelle settimane valutate sul momento come insignificanti? In fondo non erano tristi.

Questo costante monitoraggio del mio stato di benessere ha forse contribuito alla mia più profonda scontentezza. 

Se sei felice tu lo sai è perché devi

Il dovere della felicità innalza l’aspettativa fino ad elevarla a irraggiungibili mensole dell’anima su cui non ci sarà mai modo di riporre realmente dei sentimenti, del vissuto.

Colpa di un secolo fasullo che ci invita a mostrare agli altri solo l’immagine più impeccabile di noi stessi? Possibile. Colpa delle pressioni sociali che viviamo più o meno inconsciamente? Probabile.

Le librerie fisiche e digitali si sono riempite negli ultimi decenni di contenuti che hanno preteso di istruirci su come vivere una vita “ideale”. C’è stato chi ci ha insegnato a respirare profondamente, a cucinare cibo sano ma triste rendendolo appetibile, fare soldi senza faticare, accettare i nostri e i difetti del cosmo. Wikihow ha vinto su tutti: offre anche una guida su come farsi inviare un biglietto d’auguri di buon compleanno dal Presidente degli Stati Uniti d’America in persona.

Ricevute queste chiarissime istruzioni possiamo tornare con serenità alla piattezza della nostra vita. E farcela andar bene così, trascinando placidamente un carretto pieno anche di magagne. Accettare che ci siano periodi ni, periodi no, periodi terribilmente no. Momenti in cui il solo pensiero della felicità ci fa abbondante antipatia.

Photo by Rikki Chan on Unsplash

L’illusione prospettica

Se ne vada al diavolo, la felicità, chi la vuole? È la grande menzogna del secolo, una stella polare di cartone che inseguiamo perdendoci il viaggio. Ci costa uno sforzo che siamo stanchi di applicare. Ci costringe a stringere i denti durante gli studi per farci poi forza durante il lavoro per tirare la cinghia per ottenere un mutuo che finiremo di pagare nei pressi di una magra pensione. Tutto ciò a che pro? Nell’illusione prospettica di essere felici.

La felicità, dicono, sta nelle piccole cose. Ennesima bugia: essa è un oggetto sempre più complesso, accessoriato, come lo è la società di oggi. Se nel paleolitico mi sarebbe bastato trovare un tronco appuntito con cui cacciare un cinghiale, nel 2020 mi servono almeno uno stipendio fisso e una situazione sentimentale stabile per essere considerata quantomeno sistemata dagli altri bipedi.

La rinuncia agli stufi

Resta un’unica soluzione: rinunciare alla felicità. Stoicamente, senza eccessivi drammi. Arrendersi al banale compromesso che il modo in cui siamo noi, la nostra vita, chi ci circonda, possa non essere del tutto piacevole. Celebrare la banalità del quotidiano, la sacrosanta imperfezione delle cose. Lasciare che tutto vada come sempre andrebbe se non lo costringessimo a stare dentro la piccola scatola dell’aspettativa: un po’ a caso.

E nell’esatto momento in cui ce ne saremo liberati eccola di nuovo all’amo, la felicità, pronta a fare il suo mestiere. Turbarci, disturbarci, e scombinarci i capelli, i piani.

Immagine di copertina: photo by Anika Huizinga on Unsplash

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Su di me: il cielo stellato

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